
Niente

vietato ai puri di cuore
Almeno le R e L le hanno messe giuste.
Care amiche, come vanno i preparativi per la Pasqua? Oggi vorrei proporvi una variazione rispetto alla mia ricetta della colomba. Ingredienti e procedimento sono gli stessi, cambia solo la forma per dare un tocco di originalità alle nostre tavole.
Potete progettare voi lo stampo, l’importante è che per un dolce di 750 grammi l’area sia di 227 centimetri quadri e l’altezza delle pareti 5.5 centimetri.
Qui potete vedere la culomba con l’impasto appena depositato.
Questo è come compare poco prima di infornare
Appena tolta dal forno, la culomba si presenta così
Possiamo sbizzarrirci nella decorazione, aggiungendo tocchi di originalità
Ma alla fine propendiamo per la versione classica
Qui possiamo vedere l’interno
Questa invece è la passera
La tale ditta, nostra storica cliente, ci ha portato anche oggi i suoi apparecchi da testare. Ma stavolta, diversamente dal solito, si sono presentati tre volti nuovi. Tra di loro non c’è il signor Yamada.
Mi rivolgo a uno di loro, non senza una certa apprensione.
“Oggi non viene il signor Yamada?”
“Ehm…Yamada non lavora più con noi…”
Immaginavo. Non volevo sentirmelo dire, ma in fondo lo sapevo.
E ora, la memoria torna indietro ai ricordi ormai vaghi del primo incontro, con lo scambio dei biglietti da visita e convenevoli vari; poi viaggia ripercorrendo le tappe della nostra conoscenza, e le giornate passate insieme in laboratorio.
Povero Yamada.
Il signor Yamada era un uomo sui cinquantacinque anni, veniva quasi sempre da solo e aveva un carattere un po’ particolare.
Parlava tutto il tempo, ma non aveva argomenti molto entusiasmanti. Chissà, forse era un tipo introverso che avrebbe voluto stare sempre zitto, ma temeva che così facendo non avrebbe suscitato una buona impressione.
La prima volta che mi capitò di servirlo, mi accorsi del suo strano carattere.
Portò i suoi apparecchi per i test, mi fece passare una giornata terribile con i suoi discorsi noiosi, e poi a lavoro concluso scoprii anche le sue qualità di scroccone.
“Vorrei che mi spediste indietro gli apparecchi, e poi anche il computer. Spediteli pure con pagamento a carico del destinatario.”
“Certamente. Ha delle preferenze per quanto riguarda la data di consegna?”
“Ah, ehm…un momento, il computer è quello che uso per il lavoro, quindi se me lo spedite non posso lavorare finché non arriva, vediamo come possiamo fare…spedire no, quindi…ehm…”
Non sapendo che cosa proporgli, andai a chiedere al mio collega Suzuki.
“Suzuki, guarda che il signor Yamada…”
“Ho capito, vado.”
Suzuki sapeva già da tempo che Yamada voleva che gli trasportassimo tutta la roba in macchina, e naturalmente coglieva l’occasione per scroccare un passaggio al ritorno.
Suzuki accompagnava sempre Yamada dopo i test. Tornava in azienda visibilmente stanco, e i colleghi lo sfottevano.
“Be’, Suzuki, com’è andata? Hi hi hi! Ti sei divertito? Hi hi hi!”
Sicuramente si incazzava a quelle domande, ma reagiva con un’ invidiabile compostezza.
Quando veniva Yamada, tutti gli altri miei colleghi cercavano di evitarlo: si assentavano, oppure si offrivano volontari per altri lavori.
Ma per me tutti i clienti sono uguali, e anche se non sono divertenti, non ho motivi per non trattarli alla stessa maniera. Forse è per quello che in breve tempo finii per essere l’unico tecnico ad avere a che fare con Yamada.
Fino a quando arrivò quel giorno.
Yamada era in forma e faceva le solite domande.
“Ti piace il Giappone?”
“Sì, certo che mi piace.” Ah, neppure dopo tanti anni smette di farmi questa domanda.
“E cosa ti piace di più del Giappone?”
Che si vedono tante cosce anche in inverno. “E’ difficile rispondere, mi piace davvero tutto: la cucina, la gente, il clima…”
“A proposito di clima, in Giappone è bello perché ci sono le quattro stagioni. Lo sai cosa sono? Ci sono le quattro stagioni in Italia?”
Basta, ti prego! “Ehm…Mi dispiace, il suo apparecchio supera di tre volte i limiti consentiti…”
“Davvero? Che strano, rispetto all’ultimo modello ho cambiato solo questo, questo, questo e questo…”
Be’, se ti sembra poco…
“…e poi questo e questo, quindi ero sicurissimo che avrebbe passato il test… E ora come faccio? Se non passa oggi è un disastro…”
“Abbiamo poco tempo, ma sono fiducioso che riusciremo a trovare una soluzione. Per esempio, che ne dice di provare a fare così e così?”
“Va bene, proviamo.”
E iniziò la giornata più lunga per il povero Yamada, che prese a smontare, rimontare e modificare la sua creatura nella speranza di riuscire a risolvere il suo problema entro la giornata.
Ma la sua preoccupazione, che con il tempo si trasformava in disperazione, non gli impediva di rivolgermi le sue solite domande.
“Esistono le melanzane in Italia?”
Signore, ti prego, portatelo via.
“Sì, ci sono, anche se sono un po’ diverse.” No, diamine, ora mi chiederà quali sono le differenze.
“Cosa fai di solito nel fine settimana?”
Ah, meno male. Però, che domanda indiscreta.
“Niente di particolare, sono sempre stanco e quindi sto a casa.”
Ci fu un attimo di silenzio. Con questo povero diavolo bisognava tenere viva la conversazione, ma che cosa potevo fare? Sarebbe stato educato chiedergli cosa fa lui?
Ma sì, va’.
“E lei cosa fa?”
“Ehm…io…vado a divertirmi…Ma è un tipo di divertimento tipico dei giapponesi, e che non è molto sano…”
Va a puttane! Che scoperte interessanti si fanno, a volte. Ma poi, c’era bisogno di dirmelo? Probabilmente quell’uomo aveva bisogno di affetto. Avrei potuto offrirgli la mia compagnia, e lui in cambio mi avrebbe portato in giro per bordelli, iniziando questo povero verginello al sesso a pagamento. Provai a vedere se si poteva sviluppare il discorso.
“….”
Ma le parole non uscivano. Non potevo. Fanculo.
Yamada cercava disperatamente di mettere a posto il suo apparecchio, ma il tempo passava e tutti i suoi tentativi sembravano vani.
E il tempo a sua disposizione stava per finire, quando tentò la sua ultima carta.
“Senti, per caso è possibile fare un po’ di straordinario?”
“Certo, non c’è nessun problema.”
“Ehm…Io ero sicurissimo che l’apparecchio avrebbe passato il test, quindi ho prenotato qui e ho anche sforato un po’ il budget…quindi se io adesso torno in azienda senza che questo apparecchio abbia passato il test, io…ehm…”
Sembrava che stesse cercando di scroccare dello straordinario gratis. Ormai lo conoscevo.
Yamada continuò.
“Senti, non è possibile far pagare lo straordinario a me anziché alla ditta?”
“Noi non possiamo fatturare a persone fisiche, mi dispiace…”
Sapevo già che il suo apparecchio non avrebbe passato il test quel giorno. Anche se fosse stato possibile farlo pagare, sarebbe stato tutto inutile.
“Comunque ora vediamo, chiedo al mio collega delle vendite se si può trovare una soluzione.” Citofonai a Suzuki e gli passai la patata bollente.
Suzuki scese in laboratorio, e Yamada gli spiegò la situazione.
Un contrariato, ma comprensivo Suzuki, confermò la difficoltà a venire incontro alle richieste del povero Yamada, ma mostrò alfine tutta la sua magnanimità:
“Va bene, per questa volta in via del tutto eccezionale le offriamo un’ora di straordinario gratis.”
E così la giornata lavorativa continuò, per un’ora e mezza in più del previsto, quando Yamada si rassegnò definitivamente. Prese le sue cose, disse le sue ultime parole, Suzuki gli diede il solito passaggio, e non lo vidi più.
Ahi, Yamada, quale sorte ti toccò, e quali rimorsi mi attanagliano! Forse saremmo potuti diventare buoni amici, se solo avessi avuto il coraggio di pronunciare quelle parole. E se fossi riuscito ad aiutarti, forse il tuo rientro in ditta non sarebbe stato tanto infelice. Ma spero che dopotutto ti riprenderai, e magari ci rivedremo.
Che la vita ti sia lieve.
Lo studio del mio dentista è un tal spettacolo di luce, pulizia e ordine, che quasi si ha l’impressione di essere stati catapultati nel Paradiso dantesco.
In uno splendido acquario posto vicino all’ingresso nuotano pesci tropicali dai colori sgargianti. Poco più in là, di fronte alla reception, luccicano dei divani in pelle bianca che devono essere costati un sacco di soldi.
E’ la prima volta che vengo qui, e mi sento a disagio per tutto questo splendore. Consegno la tessera sanitaria a una signorina in ghingheri che mi chiede di compilare il solito questionario: se ho paura, se ho allergie e tutte quelle robe lì.
Dopo una breve attesa mi fanno entrare in studio, e mi accompagnano subito a fare la radiografia. La tipa, che non so ancora come si chiama, mi dà le solite istruzioni e poi esce, lasciandomi solo a prendermi i raggi X. Be’, per fortuna almeno da questo dentista è normale fare così.
Poi mi fanno accomodare nella poltrona. Mi mettono subito un bavaglino di carta usa e getta, del più meraviglioso e rilassante blu cobalto che abbia mai visto in vita mia.
Ci sono ben 4 pulzelle in giro. Una di loro si avvicina con un taccuino e mi fa le stesse domande a cui ho già risposto nel questionario. Vorrei chiederle allora perché cazzo me lo abbiano fatto compilare, ma mi rassegno e mi limito a guardare incuriosito la tipa che fa i segni a matita sul taccuino a ogni mia risposta.
Arriva il dentista, in ossequio alla procedura che prevede l’ingresso da superstar, sceneggiata già vista tante volte anche dall’altro dentista. Dopo le solite stramaledette domande dadovevieni-parliilgiapponese-tipiaceilcalcio, fa per iniziare il lavoro e mi punta la lampada in faccia, ma prima una delle aiutanti mi mette una specie di panno morbido e profumato sugli occhi. Non so se serva per non abbagliare il malcapitato o se abbia una funzione simile alla benda che mettono a un condannato a morte prima di impiccarlo. Tolgo la benda, disturbato dalla mancanza di visuale.
“Preferisci che non te la mettiamo?”
Che razza di domande sceme che fanno a volte. Mentre il dentista si prepara, cerco di studiare meglio l’ambiente circostante: cerco la sporcizia e le macchie di sangue che tanto mi avevano tenuto compagnia dal precedente dentista, ma senza successo. Tutti indossano i guanti di gomma monouso. Per risciacquare la bocca ci sono i bicchieri di carta usa e getta, di cui il vecchio bicchiere di ferro pieno di incrostazioni mi aveva quasi fatto dimenticare l’esistenza. Ecco, ho trovato una cosa: sul braccio della lampada ci sono dei resti di colla che tradiscono la presenza di un pezzo di nastro adesivo non completamente rimosso, probabilmente per evitare di graffiare la plastica.
Sono un po’ triste.
Ho deciso di cambiare dentista da quando il dottore mi ha messo in bocca le dita nude che sapevano di figa.
L’episodio è l’anello mancante che mi ha permesso di ricostruire quello che succedeva in quella specie di immondezzaio che era il suo studio.
Ecco perché insieme al paziente c’era quasi sempre una sola persona alla volta. Gi altri due sparivano là dietro e non si capiva cosa stessero facendo. O meglio lo intuivo, ma evidentemente sottovalutavo la mia malizia.
Ora è tutto chiaro. Il porco faceva certi giochetti con le pulzelle che si davano il cambio, magari su quel tavolo del retrobottega dove ammassava coperte, mutande e spazzatura. E chissà cosa doveva aver fatto quell’unica volta che si era messo i guanti da quando lo conosco. Meglio non pensarci, va’.
Che modo stupido per perdere i clienti. Passi per la sporcizia, passi per gli strumenti non sterilizzati, ma questa proprio no. Ammetto che mi sarebbe piaciuto assaporare la natura di Hime, ma non certo per interposta persona.
E ora mi ritrovo qui, su questa poltrona tirata a lucido, in un ambiente asettico, con le assistenti che mi toccano il meno possibile e solo attraverso sterili guanti di lattice. Ho addosso la tristezza di quando si è chiusa un’era.
Riuscirò ad affezionarmi a queste nuove pulzelle? Potrà perdonarmi Hime per averla tradita con altre igieniste?
Terminata la visita vado via, lasciandomi alle spalle l’acquario tropicale e cercando di cacciare via i pensieri confusi che mi attanagliano.
Prendo l’ascensore, esco dal palazzo e mi affaccio per l’ennesima volta nel panorama di questa Tokyo maledetta, già al buio e brulicante di salarymen che tornano dal lavoro.
Alzo lo sguardo verso le luci della città, filtrate da una pioggia fine che nel frattempo ha iniziato a cadere leggera, e mi fermo per qualche istante in mezzo al marciapiede. Poi emetto un sospiro di rassegnazione, e mi avvio mestamente verso casa.
Addio mia dolce Hime, e làvatela di più.
Questa è la mia ricetta originale per la colomba. Per modo di dire perché non ha la glassa e forse anche qualche altra deviazione rispetto al disciplinare. Prevede meno uova e meno burro rispetto alle solite ricette, particolare che la rende più adatta ai miei gusti e più facile da realizzare.
Ingredienti (per colomba da 750 grammi):
Primo impasto:
Farina di forza 190 g
Zucchero 43 g
Licoli 100 g (oppure 75 g di pasta madre) rinfrescato più volte e in forma
Acqua 74 g ( 99 g se usate pasta madre)
Tuorli d’uovo 35 g (2 tuorli)
Burro 40 g
Miele 5 g
Secondo impasto:
Farina di forza 60 g
Zucchero 43 g
Tuorli d’uovo 35 g (2 tuorli)
Burro 60 g
Miele 5 g
Vaniglia q. b.
Sale 2.5 g
Canditi 67 g, ma in teoria ce ne vogliono di più
Copertura:
Cioccolato bianco 1 tavoletta circa 50 g
Mandorle tostate q.b.
Per lo stampo:
Un foglio di cartoncino di grandezza sufficiente
Carta da forno
Righello e compasso
Forbici
Spillatrice, cucitrice o come la chiamate
Prima di tutto costruiamo lo stampo.
Disegniamo sul cartoncino 4 cerchi di raggio 4.1cm, posizionati come in figura, e ricaviamo il contorno. Ritagliamo lasciando all’esterno del contorno almeno mezzo centimetro che servira’ per fissare il bordo dello stampo.
Il bordo dello stampo invece si ricava ritagliando dallo stesso cartoncino strisce di altezza 5.5 cm, più circa mezzo centimetro per il fissaggio, e di lunghezza sufficiente a coprire il perimetro dello stampo.
Al termine, è necessario foderare lo stampo con carta da forno.
Il procedimento parte dal minuto 5:44 del video.
Primo impasto: prima mettiamo insieme acqua, lievito, farina, miele e zucchero semolato, impastiamo, poi a impasto quasi liscio aggiungiamo piano piano le uova. A incordatura avvenuta aggiungiamo piano piano il burro e portiamo nuovamente a incordatura.
Mettiamo a lievitare a circa 28 gradi, a impasto triplicato (ci vogliono da 10 a 16 ore) mettiamo in frigo per 1 ora, nel frattempo prepariamo le fasi successive.
Secondo impasto: aggiungiamo al primo impasto il resto della farina, lo zucchero, il miele, la vaniglia, impastiamo fino a quando non diventa liscio, aggiungiamo le uova piano piano, portiamo a incordatura e aggiungiamo il burro sempre poco per volta. Con l’ultima dose di burro aggiungiamo il sale. Poco prima di chiudere mettiamo i canditi e li incorporiamo bene.
Lasciamo riposare a 28 gradi per 1 ora, poi dividiamo l’impasto tra corpo e ali e mettiamo su un ripiano, attendiamo un’altra mezz’ora, poi pirliamo e mettiamo nello stampo. In questa ricetta l’impasto è molto morbido e potreste dovervi ungere le mani di burro altrimenti non ce la fate.
Mettiamo a lievitare a 30 gradi circa con la pellicola sopra e quando mancano 2 cm dal bordo pratichiamo una scarpatura e inforniamo. Io cuocio a 160 gradi nel forno giapponese ventilato di merda, questa ci ha messo 37 minuti per arrivare a 95 gradi che è la temperatura alla quale va sfornata. Rovesciata per 10 ore e poi ricoperta di cioccolato bianco comune circa 100 grammi fuso a bagnomaria, e sopra mandorle tostate tritate.
E’ passato un bel po’ di tempo da quando il nuovo arrivato ha fatto il suo ingresso nella mia ditta, ma quel buono a nulla non è ancora riuscito a diventare autonomo. Insomma, uno non può neanche leggersi il giornale in santa pace che arriva sempre lui a implorare aiuto.
Quella volta corse in ufficio a chiamarmi per aiutarlo con un cliente cinese. Doveva aver detto al cliente che io sono italiano: infatti, quando entrai in laboratorio, la prima cosa che mi chiese fu di quale zona fossi. Risposi con il solito disco preregistrato, e prima che potessi finire quello cominciò a parlare di calcio, di Serie A e di giocatori famosi e non. Iniziai a preoccuparmi seriamente quando sospettai che stava per invitarmi a una partitella tra amici, e cercai disperatamente di cambiare discorso con la prima cosa stupida che mi venne in mente.
“A proposito, lo sa che nella nostra ditta lavora una donna cinese?”
“Davvero? E di dov’è?”
Non sapevo di dove cazzo fosse. Mi resi conto che da quando l’avevo conosciuta ci parlavo solo per spiegarle il lavoro da fare al mio posto. Accidenti a me, dovrei essere meno timido di fronte alle pulzelle.
A questo punto lo sbarbatello intervenne nella discussione.
“Si chiama Lì, credo sia del Nord, vicino alla Russia o alla Corea del Nord, mi sembra…”
Ma come! Io non so nulla della cinesina, e questo moccioso sa pure da quale parte della Cina viene? Bisogna prendere provvedimenti.
Prima che il cliente ricominciasse a parlare di calcio, mi defilai con una scusa. Il mio collega poteva fottersi. Arrivato in ufficio, mi sedetti vicino a Lì e attaccai bottone.
Lì è una fanciulla dalla bellezza notevole. E’ uno splendido esemplare di razza mongoloide, con la pelle gialla e un accenno di lentiggini sugli zigomi. Il suo corpo, asciutto e muscoloso, ricorda le cavallerizze nomadi che abitano le sterminate praterie ai limiti del deserto del Gobi.
Il viso piatto è adornato da lunghi capelli, neri e lisci come spaghetti, ma il segreto del suo fascino sono i suoi occhietti a mandorla, monopalpebra e sottilissimi. Gran brutta cosa, questa, dal suo punto di vista. Qui vanno di moda gli occhi grandi e con le ciglia lunghe, l’esatto contrario di come ce li ha lei, e proprio per questo motivo sono abbastanza sicuro che i giapponesi la considerano un cesso.
Povera piccola. Non sa che a poche scrivanie di distanza siede un’anima gentile e altruista che, armata di uccello multifunzione, si farebbe in quattro per lenire le sue atroci sofferenze.
Non so neanche quanti anni abbia, perché il file degli impiegati non viene aggiornato da prima che arrivasse, ma alcune voci la danno per ventottenne. Anche la sua vita privata è un mistero; solo l’assenza di anelli sospetti mi fa immaginare a quale triste vita solitaria sia condannata la povera stella.
Parlammo per qualche decina di minuti del più e del meno, e tra una cosa e l’altra mi feci indicare nella mappa il punto esatto della sua casa in Cina. Ora che ne sapevo più dello sbarbatello, potevo ritenermi soddisfatto.
***
Qualche settimana fa, poco dopo la nostra chiacchierata, Lì ha cominciato a cambiare. Si è tagliata i capelli più corti e da qualche giorno se li è fatti mossi. Ogni tanto la becco che guarda, e ora che ci penso la trovo più affettuosa di prima. Io la ricambio, accompagnandola la mattina a ricevere i clienti, e amo farmi precedere quando saliamo le scale.
Ieri è arrivato un forte tifone che ha creato molti disagi ai trasporti pubblici. Io ero alle prese con un cliente, e Lì è venuta da me in laboratorio.
“I treni sono fermi, come facciamo a tornare?”
Piccola mia, perché lo chiedi a me? Tu vai verso Yokohama, io verso Tokyo. Prendiamo treni diversi in direzioni opposte e lo sai benissimo, ma non te lo ricordo perché voglio vedere dove vuoi arrivare. E ora eccoti la mia risposta di circostanza:
“Ora finisco con i clienti e poi vediamo.”
“Ti prego, finisci in fretta e torniamo insieme!”
Poi magari ci sorprende la pioggia, i treni non ripartono e siamo costretti a pernottare in un albergo. Capisco. Sono cose che capitano, e nessuno può sottrarsi alla volontà divina.
Dopo un’ora di straordinario, terminato con il cliente, sono salito in ufficio. Lì non c’era più. Non vedendomi arrivare, doveva essersi arresa all’idea di tornare da sola.
E oggi in ufficio non è venuta. Stava male, dice. Immagino. Deve aver passato la notte in lacrime, pensando all’occasione mancata di trovarsi a tu per tu con il mitico multifunzione.
Forse la vita le darà il tempo per rifarsi. Nel frattempo la storia continua, e qualunque cosa accada in futuro, mi dispiace tantissimo, ma il racconto si ferma qui.