La vedevo ogni giorno sul treno della mattina. Io ero già seduto, aspettando che il treno partisse, e quando le porte stavano per chiudersi la vedevo entrare di corsa. Era molto magra, capelli lunghi e lisci, né bella né brutta ma forse la perfezione fisica l’avrebbe resa meno interessante. I suoi occhi a mandorla, così comuni da queste parti, si contrapponevano a delle labbra insolitamente carnose per una corporatura così esile.
I pantaloni elasticizzati le mettevano in evidenza le anche, che la magrezza faceva sembrare ancora più larghe, e che con le due sottili gambe separate da un grande vuoto formavano la figura di un diapason.
Mentre saliva sul vagone la guardavo discretamente per qualche istante senza essere ricambiato, poi distoglievo lo sguardo per posarlo nuovamente sul mio libro, mentre lei si perdeva nella confusione del treno.
Dopo un lungo viaggio, e dopo essere sceso dall’ultimo treno, sorprendentemente la ritrovavo, sempre nello stesso punto. Ogni giorno. Camminava davanti a me a poche decine di metri di distanza, con il fondoschiena che si muoveva ritmicamente in maniera esagerata, complici le sproporzioni fisiche. La mia lunga falcata compensava il suo passo veloce, e per un lungo tratto, sebbene ognuno andasse per la sua strada, eravamo come uniti da un filo invisibile che ci teneva sempre alla stessa distanza.
Tic, tac, tic, tac. Completamente rapito da quel culo ondulante, lo seguivo come una trota segue il cucchiaino del pescatore.
Poi a un certo punto la vacca girava in un’altra strada, e io mi svegliavo dal torpore ipnotico. Ero proprio davanti alla mia ditta.
* * *
Ma quel giorno, sceso alla stazione, entrai nel solito convenience store per comprarmi il pranzo, come facevo ogni giorno.
Sorprendentemente c’era anche lei. Mi chiedevo come avessi fatto in tanto tempo a non accorgermi che probabilmente anche lei ogni mattina entrava nello stesso negozio. Quando la vidi pagare e dirigersi verso l’uscita, anch’io mi affrettai a pagare e mi precipitai fuori dal negozio per seguirla. Guardai intorno, ma lei non c’era. Non poteva avere percorso più di una decina di metri, non era possibile che si fosse volatilizzata, ma non c’era. E non l’avrei mai più incontrata, né in treno, né al negozio, né mai.
Da quel giorno la Donna Diapason mi aveva abbandonato. Avevo perduto il pesce pilota che ogni mattina col suo culo mi guidava verso l’azienda. Da allora, durante il mio solitario e breve tragitto a piedi verso la ditta, il mio sguardo si sarebbe smarrito sulle ciminiere fumanti, sui camion che sfrecciano rumorosi, sui rifiuti abbandonati per strada.
Addio, ignota femmina dal culo un po’ storpio, e grazie lo stesso per i brevi momenti in cui mi hai distratto dalle brutture di questa città.
