Lo studio del mio dentista è un tal spettacolo di luce, pulizia e ordine, che quasi si ha l’impressione di essere stati catapultati nel Paradiso dantesco.
In uno splendido acquario posto vicino all’ingresso nuotano pesci tropicali dai colori sgargianti. Poco più in là, di fronte alla reception, luccicano dei divani in pelle bianca che devono essere costati un sacco di soldi.
E’ la prima volta che vengo qui, e mi sento a disagio per tutto questo splendore. Consegno la tessera sanitaria a una signorina in ghingheri che mi chiede di compilare il solito questionario: se ho paura, se ho allergie e tutte quelle robe lì.
Dopo una breve attesa mi fanno entrare in studio, e mi accompagnano subito a fare la radiografia. La tipa, che non so ancora come si chiama, mi dà le solite istruzioni e poi esce, lasciandomi solo a prendermi i raggi X. Be’, per fortuna almeno da questo dentista è normale fare così.
Poi mi fanno accomodare nella poltrona. Mi mettono subito un bavaglino di carta usa e getta, del più meraviglioso e rilassante blu cobalto che abbia mai visto in vita mia.
Ci sono ben 4 pulzelle in giro. Una di loro si avvicina con un taccuino e mi fa le stesse domande a cui ho già risposto nel questionario. Vorrei chiederle allora perché cazzo me lo abbiano fatto compilare, ma mi rassegno e mi limito a guardare incuriosito la tipa che fa i segni a matita sul taccuino a ogni mia risposta.
Arriva il dentista, in ossequio alla procedura che prevede l’ingresso da superstar, sceneggiata già vista tante volte anche dall’altro dentista. Dopo le solite stramaledette domande dadovevieni-parliilgiapponese-tipiaceilcalcio, fa per iniziare il lavoro e mi punta la lampada in faccia, ma prima una delle aiutanti mi mette una specie di panno morbido e profumato sugli occhi. Non so se serva per non abbagliare il malcapitato o se abbia una funzione simile alla benda che mettono a un condannato a morte prima di impiccarlo. Tolgo la benda, disturbato dalla mancanza di visuale.
“Preferisci che non te la mettiamo?”
Che razza di domande sceme che fanno a volte. Mentre il dentista si prepara, cerco di studiare meglio l’ambiente circostante: cerco la sporcizia e le macchie di sangue che tanto mi avevano tenuto compagnia dal precedente dentista, ma senza successo. Tutti indossano i guanti di gomma monouso. Per risciacquare la bocca ci sono i bicchieri di carta usa e getta, di cui il vecchio bicchiere di ferro pieno di incrostazioni mi aveva quasi fatto dimenticare l’esistenza. Ecco, ho trovato una cosa: sul braccio della lampada ci sono dei resti di colla che tradiscono la presenza di un pezzo di nastro adesivo non completamente rimosso, probabilmente per evitare di graffiare la plastica.
Sono un po’ triste.
Ho deciso di cambiare dentista da quando il dottore mi ha messo in bocca le dita nude che sapevano di figa.
L’episodio è l’anello mancante che mi ha permesso di ricostruire quello che succedeva in quella specie di immondezzaio che era il suo studio.
Ecco perché insieme al paziente c’era quasi sempre una sola persona alla volta. Gi altri due sparivano là dietro e non si capiva cosa stessero facendo. O meglio lo intuivo, ma evidentemente sottovalutavo la mia malizia.
Ora è tutto chiaro. Il porco faceva certi giochetti con le pulzelle che si davano il cambio, magari su quel tavolo del retrobottega dove ammassava coperte, mutande e spazzatura. E chissà cosa doveva aver fatto quell’unica volta che si era messo i guanti da quando lo conosco. Meglio non pensarci, va’.
Che modo stupido per perdere i clienti. Passi per la sporcizia, passi per gli strumenti non sterilizzati, ma questa proprio no. Ammetto che mi sarebbe piaciuto assaporare la natura di Hime, ma non certo per interposta persona.
E ora mi ritrovo qui, su questa poltrona tirata a lucido, in un ambiente asettico, con le assistenti che mi toccano il meno possibile e solo attraverso sterili guanti di lattice. Ho addosso la tristezza di quando si è chiusa un’era.
Riuscirò ad affezionarmi a queste nuove pulzelle? Potrà perdonarmi Hime per averla tradita con altre igieniste?
Terminata la visita vado via, lasciandomi alle spalle l’acquario tropicale e cercando di cacciare via i pensieri confusi che mi attanagliano.
Prendo l’ascensore, esco dal palazzo e mi affaccio per l’ennesima volta nel panorama di questa Tokyo maledetta, già al buio e brulicante di salarymen che tornano dal lavoro.
Alzo lo sguardo verso le luci della città, filtrate da una pioggia fine che nel frattempo ha iniziato a cadere leggera, e mi fermo per qualche istante in mezzo al marciapiede. Poi emetto un sospiro di rassegnazione, e mi avvio mestamente verso casa.
Addio mia dolce Hime, e làvatela di più.
