56 – Yamada (repost)

La tale ditta, nostra storica cliente, ci ha portato anche oggi i suoi apparecchi da testare. Ma stavolta, diversamente dal solito, si sono presentati tre volti nuovi. Tra di loro non c’è il signor Yamada.
Mi rivolgo a uno di loro, non senza una certa apprensione.
“Oggi non viene il signor Yamada?”
“Ehm…Yamada non lavora più con noi…”
Immaginavo. Non volevo sentirmelo dire, ma in fondo lo sapevo.
E ora, la memoria torna indietro ai ricordi ormai vaghi del primo incontro, con lo scambio dei biglietti da visita e convenevoli vari; poi viaggia ripercorrendo le tappe della nostra conoscenza, e le giornate passate insieme in laboratorio.
Povero Yamada.

I ricordi ormai vaghi del primo incontro

Il signor Yamada era un uomo sui cinquantacinque anni, veniva quasi sempre da solo e aveva un carattere un po’ particolare.
Parlava tutto il tempo, ma non aveva argomenti molto entusiasmanti. Chissà, forse era un tipo introverso che avrebbe voluto stare sempre zitto, ma temeva che così facendo non avrebbe suscitato una buona impressione.
La prima volta che mi capitò di servirlo, mi accorsi del suo strano carattere.
Portò i suoi apparecchi per i test, mi fece passare una giornata terribile con i suoi discorsi noiosi, e poi a lavoro concluso scoprii anche le sue qualità di scroccone.
“Vorrei che mi spediste indietro gli apparecchi, e poi anche il computer. Spediteli pure con pagamento a carico del destinatario.”
“Certamente. Ha delle preferenze per quanto riguarda la data di consegna?”
“Ah, ehm…un momento, il computer è quello che uso per il lavoro, quindi se me lo spedite non posso lavorare finché non arriva, vediamo come possiamo fare…spedire no, quindi…ehm…”
Non sapendo che cosa proporgli, andai a chiedere al mio collega Suzuki.
“Suzuki, guarda che il signor Yamada…”
“Ho capito, vado.”
Suzuki sapeva già da tempo che Yamada voleva che gli trasportassimo tutta la roba in macchina, e naturalmente coglieva l’occasione per scroccare un passaggio al ritorno.

Suzuki accompagnava sempre Yamada dopo i test. Tornava in azienda visibilmente stanco, e i colleghi lo sfottevano.
“Be’, Suzuki, com’è andata? Hi hi hi! Ti sei divertito? Hi hi hi!”
Sicuramente si incazzava a quelle domande, ma reagiva con un’ invidiabile compostezza.

Quando veniva Yamada, tutti gli altri miei colleghi cercavano di evitarlo: si assentavano, oppure si offrivano volontari per altri lavori.
Ma per me tutti i clienti sono uguali, e anche se non sono divertenti, non ho motivi per non trattarli alla stessa maniera. Forse è per quello che in breve tempo finii per essere l’unico tecnico ad avere a che fare con Yamada.

Fino a quando arrivò quel giorno.
Yamada era in forma e faceva le solite domande.
“Ti piace il Giappone?”
“Sì, certo che mi piace.” Ah, neppure dopo tanti anni smette di farmi questa domanda.
“E cosa ti piace di più del Giappone?”
Che si vedono tante cosce anche in inverno. “E’ difficile rispondere, mi piace davvero tutto: la cucina, la gente, il clima…”
“A proposito di clima, in Giappone è bello perché ci sono le quattro stagioni. Lo sai cosa sono? Ci sono le quattro stagioni in Italia?”
Basta, ti prego! “Ehm…Mi dispiace, il suo apparecchio supera di tre volte i limiti consentiti…”
“Davvero? Che strano, rispetto all’ultimo modello ho cambiato solo questo, questo, questo e questo…”
Be’, se ti sembra poco…
“…e poi questo e questo, quindi ero sicurissimo che avrebbe passato il test… E ora come faccio? Se non passa oggi è un disastro…”
“Abbiamo poco tempo, ma sono fiducioso che riusciremo a trovare una soluzione. Per esempio, che ne dice di provare a fare così e così?”
“Va bene, proviamo.”

E iniziò la giornata più lunga per il povero Yamada, che prese a smontare, rimontare e modificare la sua creatura nella speranza di riuscire a risolvere il suo problema entro la giornata.
Ma la sua preoccupazione, che con il tempo si trasformava in disperazione, non gli impediva di rivolgermi le sue solite domande.
“Esistono le melanzane in Italia?”
Signore, ti prego, portatelo via.
“Sì, ci sono, anche se sono un po’ diverse.” No, diamine, ora mi chiederà quali sono le differenze.
“Cosa fai di solito nel fine settimana?”
Ah, meno male. Però, che domanda indiscreta.
“Niente di particolare, sono sempre stanco e quindi sto a casa.”
Ci fu un attimo di silenzio. Con questo povero diavolo bisognava tenere viva la conversazione, ma che cosa potevo fare? Sarebbe stato educato chiedergli cosa fa lui?
Ma sì, va’.
“E lei cosa fa?”
“Ehm…io…vado a divertirmi…Ma è un tipo di divertimento tipico dei giapponesi, e che non è molto sano…”
Va a puttane! Che scoperte interessanti si fanno, a volte. Ma poi, c’era bisogno di dirmelo? Probabilmente quell’uomo aveva bisogno di affetto. Avrei potuto offrirgli la mia compagnia, e lui in cambio mi avrebbe portato in giro per bordelli, iniziando questo povero verginello al sesso a pagamento. Provai a vedere se si poteva sviluppare il discorso.
“….”
Ma le parole non uscivano. Non potevo. Fanculo.

Yamada cercava disperatamente di mettere a posto il suo apparecchio, ma il tempo passava e tutti i suoi tentativi sembravano vani.
E il tempo a sua disposizione stava per finire, quando tentò la sua ultima carta.
“Senti, per caso è possibile fare un po’ di straordinario?”
“Certo, non c’è nessun problema.”
“Ehm…Io ero sicurissimo che l’apparecchio avrebbe passato il test, quindi ho prenotato qui e ho anche sforato un po’ il budget…quindi se io adesso torno in azienda senza che questo apparecchio abbia passato il test, io…ehm…”
Sembrava che stesse cercando di scroccare dello straordinario gratis. Ormai lo conoscevo.
Yamada continuò.
“Senti, non è possibile far pagare lo straordinario a me anziché alla ditta?”
“Noi non possiamo fatturare a persone fisiche, mi dispiace…”
Sapevo già che il suo apparecchio non avrebbe passato il test quel giorno. Anche se fosse stato possibile farlo pagare, sarebbe stato tutto inutile.
“Comunque ora vediamo, chiedo al mio collega delle vendite se si può trovare una soluzione.” Citofonai a Suzuki e gli passai la patata bollente.
Suzuki scese in laboratorio, e Yamada gli spiegò la situazione.
Un contrariato, ma comprensivo Suzuki, confermò la difficoltà a venire incontro alle richieste del povero Yamada, ma mostrò alfine tutta la sua magnanimità:
“Va bene, per questa volta in via del tutto eccezionale le offriamo un’ora di straordinario gratis.”

E così la giornata lavorativa continuò, per un’ora e mezza in più del previsto, quando Yamada si rassegnò definitivamente. Prese le sue cose, disse le sue ultime parole, Suzuki gli diede il solito passaggio, e non lo vidi più.

Ahi, Yamada, quale sorte ti toccò, e quali rimorsi mi attanagliano! Forse saremmo potuti diventare buoni amici, se solo avessi avuto il coraggio di pronunciare quelle parole. E se fossi riuscito ad aiutarti, forse il tuo rientro in ditta non sarebbe stato tanto infelice. Ma spero che dopotutto ti riprenderai, e magari ci rivedremo.
Che la vita ti sia lieve.

Yamada

51- Il dentista (repost)

Lo studio del mio dentista è un tal spettacolo di luce, pulizia e ordine, che quasi si ha l’impressione di essere stati catapultati nel Paradiso dantesco.
In uno splendido acquario posto vicino all’ingresso nuotano pesci tropicali dai colori sgargianti. Poco più in là, di fronte alla reception, luccicano dei divani in pelle bianca che devono essere costati un sacco di soldi.
E’ la prima volta che vengo qui, e mi sento a disagio per tutto questo splendore. Consegno la tessera sanitaria a una signorina in ghingheri che mi chiede di compilare il solito questionario: se ho paura, se ho allergie e tutte quelle robe lì.
Dopo una breve attesa mi fanno entrare in studio, e mi accompagnano subito a fare la radiografia. La tipa, che non so ancora come si chiama, mi dà le solite istruzioni e poi esce, lasciandomi solo a prendermi i raggi X. Be’, per fortuna almeno da questo dentista è normale fare così.
Poi mi fanno accomodare nella poltrona. Mi mettono subito un bavaglino di carta usa e getta, del più meraviglioso e rilassante blu cobalto che abbia mai visto in vita mia.
Ci sono ben 4 pulzelle in giro. Una di loro si avvicina con un taccuino e mi fa le stesse domande a cui ho già risposto nel questionario. Vorrei chiederle allora perché cazzo me lo abbiano fatto compilare, ma mi rassegno e mi limito a guardare incuriosito la tipa che fa i segni a matita sul taccuino a ogni mia risposta.
Arriva il dentista, in ossequio alla procedura che prevede l’ingresso da superstar, sceneggiata già vista tante volte anche dall’altro dentista. Dopo le solite stramaledette domande dadovevieni-parliilgiapponese-tipiaceilcalcio, fa per iniziare il lavoro e mi punta la lampada in faccia, ma prima una delle aiutanti mi mette una specie di panno morbido e profumato sugli occhi. Non so se serva per non abbagliare il malcapitato o se abbia una funzione simile alla benda che mettono a un condannato a morte prima di impiccarlo. Tolgo la benda, disturbato dalla mancanza di visuale.
“Preferisci che non te la mettiamo?”
Che razza di domande sceme che fanno a volte. Mentre il dentista si prepara, cerco di studiare meglio l’ambiente circostante: cerco la sporcizia e le macchie di sangue che tanto mi avevano tenuto compagnia dal precedente dentista, ma senza successo. Tutti indossano i guanti di gomma monouso. Per risciacquare la bocca ci sono i bicchieri di carta usa e getta, di cui il vecchio bicchiere di ferro pieno di incrostazioni mi aveva quasi fatto dimenticare l’esistenza. Ecco, ho trovato una cosa: sul braccio della lampada ci sono dei resti di colla che tradiscono la presenza di un pezzo di nastro adesivo non completamente rimosso, probabilmente per evitare di graffiare la plastica.
Sono un po’ triste.

Ho deciso di cambiare dentista da quando il dottore mi ha messo in bocca le dita nude che sapevano di figa.
L’episodio è l’anello mancante che mi ha permesso di ricostruire quello che succedeva in quella specie di immondezzaio che era il suo studio.
Ecco perché insieme al paziente c’era quasi sempre una sola persona alla volta. Gi altri due sparivano là dietro e non si capiva cosa stessero facendo. O meglio lo intuivo, ma evidentemente sottovalutavo la mia malizia.
Ora è tutto chiaro. Il porco faceva certi giochetti con le pulzelle che si davano il cambio, magari su quel tavolo del retrobottega dove ammassava coperte, mutande e spazzatura. E chissà cosa doveva aver fatto quell’unica volta che si era messo i guanti da quando lo conosco. Meglio non pensarci, va’.
Che modo stupido per perdere i clienti. Passi per la sporcizia, passi per gli strumenti non sterilizzati, ma questa proprio no. Ammetto che mi sarebbe piaciuto assaporare la natura di Hime, ma non certo per interposta persona.

E ora mi ritrovo qui, su questa poltrona tirata a lucido, in un ambiente asettico, con le assistenti che mi toccano il meno possibile e solo attraverso sterili guanti di lattice. Ho addosso la tristezza di quando si è chiusa un’era.
Riuscirò ad affezionarmi a queste nuove pulzelle? Potrà perdonarmi Hime per averla tradita con altre igieniste?

Terminata la visita vado via, lasciandomi alle spalle l’acquario tropicale e cercando di cacciare via i pensieri confusi che mi attanagliano.
Prendo l’ascensore, esco dal palazzo e mi affaccio per l’ennesima volta nel panorama di questa Tokyo maledetta, già al buio e brulicante di salarymen che tornano dal lavoro.
Alzo lo sguardo verso le luci della città, filtrate da una pioggia fine che nel frattempo ha iniziato a cadere leggera, e mi fermo per qualche istante in mezzo al marciapiede. Poi emetto un sospiro di rassegnazione,  e mi avvio mestamente verso casa.
Addio mia dolce Hime, e làvatela di più.

Addio, Hime!

48 – Lì

E’ passato un bel po’ di tempo da quando il nuovo arrivato ha fatto il suo ingresso nella mia ditta, ma quel buono a nulla non è ancora riuscito a diventare autonomo. Insomma, uno non può neanche leggersi il giornale in santa pace che arriva sempre lui a implorare aiuto.
Quella volta corse in ufficio a chiamarmi per aiutarlo con un cliente cinese. Doveva aver detto al cliente che io sono italiano: infatti, quando entrai in laboratorio, la prima cosa che mi chiese fu di quale zona fossi. Risposi con il solito disco preregistrato, e prima che potessi finire quello cominciò a parlare di calcio, di Serie A e di giocatori famosi e non. Iniziai a preoccuparmi seriamente quando sospettai che stava per invitarmi a una partitella tra amici, e cercai disperatamente di cambiare discorso con la prima cosa stupida che mi venne in mente.
“A proposito, lo sa che nella nostra ditta lavora una donna cinese?”
“Davvero? E di dov’è?”
Non sapevo di dove cazzo fosse. Mi resi conto che da quando l’avevo conosciuta ci parlavo solo per spiegarle il lavoro da fare al mio posto. Accidenti a me, dovrei essere meno timido di fronte alle pulzelle.
A questo punto lo sbarbatello intervenne nella discussione.
“Si chiama Lì, credo sia del Nord, vicino alla Russia o alla Corea del Nord, mi sembra…”
Ma come! Io non so nulla della cinesina, e questo moccioso sa pure da quale parte della Cina viene? Bisogna prendere provvedimenti.
Prima che il cliente ricominciasse a parlare di calcio, mi defilai con una scusa. Il mio collega poteva fottersi. Arrivato in ufficio, mi sedetti vicino a Lì e attaccai bottone.

Lì è una fanciulla dalla bellezza notevole. E’ uno splendido esemplare di razza mongoloide, con la pelle gialla e un accenno di lentiggini sugli zigomi. Il suo corpo, asciutto e muscoloso, ricorda le cavallerizze nomadi che abitano le sterminate praterie ai limiti del deserto del Gobi.
Il viso piatto è adornato da lunghi capelli, neri e lisci come spaghetti, ma il segreto del suo fascino sono i suoi occhietti a mandorla, monopalpebra e sottilissimi. Gran brutta cosa, questa, dal suo punto di vista. Qui vanno di moda gli occhi grandi e con le ciglia lunghe, l’esatto contrario di come ce li ha lei, e proprio per questo motivo sono abbastanza sicuro che i giapponesi la considerano un cesso.
Povera piccola. Non sa che a poche scrivanie di distanza siede un’anima gentile e altruista che, armata di uccello multifunzione, si farebbe in quattro per lenire le sue atroci sofferenze.
Non so neanche quanti anni abbia, perché il file degli impiegati non viene aggiornato da prima che arrivasse, ma alcune voci la danno per ventottenne. Anche la sua vita privata è un mistero; solo l’assenza di anelli sospetti mi fa immaginare a quale triste vita solitaria sia condannata la povera stella.

Parlammo per qualche decina di minuti del più e del meno, e tra una cosa e l’altra mi feci indicare nella mappa il punto esatto della sua casa in Cina. Ora che ne sapevo più dello sbarbatello, potevo ritenermi soddisfatto.

***

Qualche settimana fa, poco dopo la nostra chiacchierata, Lì ha cominciato a cambiare. Si è tagliata i capelli più corti e da qualche giorno se li è fatti mossi. Ogni tanto la becco che guarda, e ora che ci penso la trovo più affettuosa di prima. Io la ricambio, accompagnandola la mattina a ricevere i clienti, e  amo farmi precedere quando saliamo le scale.

Ieri è arrivato un forte tifone che ha creato molti disagi ai trasporti pubblici. Io ero alle prese con un cliente, e Lì è venuta da me in laboratorio.
“I treni sono fermi, come facciamo a tornare?”
Piccola mia, perché lo chiedi a me? Tu vai verso Yokohama, io verso Tokyo. Prendiamo treni diversi in direzioni opposte e lo sai benissimo, ma non te lo ricordo perché voglio vedere dove vuoi arrivare. E ora eccoti la mia risposta di circostanza:
“Ora finisco con i clienti e poi vediamo.”
“Ti prego, finisci in fretta e torniamo insieme!”
Poi magari ci sorprende la pioggia, i treni non ripartono e siamo costretti a pernottare in un albergo. Capisco. Sono cose che capitano, e nessuno può sottrarsi alla volontà divina.

Dopo un’ora di straordinario, terminato con il cliente, sono salito in ufficio. Lì non c’era più. Non vedendomi arrivare, doveva essersi arresa all’idea di tornare da sola.
E oggi in ufficio non è venuta. Stava male, dice. Immagino. Deve aver passato la notte in lacrime, pensando all’occasione mancata di trovarsi a tu per tu con il mitico multifunzione.
Forse la vita le darà il tempo per rifarsi. Nel frattempo la storia continua, e qualunque cosa accada in futuro, mi dispiace tantissimo, ma il racconto si ferma qui.

42 – Hime

Ho deciso. Oggi è l’ultima volta che vado da questo cane di dentista. E che diavolo, mica posso tornare una volta al mese perché non è capace di farmi un’otturazione che duri. Mi dispiace non vedere più Hime, però quando è troppo è troppo. Intanto prima di iniziare gli lancerò una frecciatina sulla sua bravura, tanto per fargli capire, se non è scemo, che mi sono stufato di farmi curare da lui. E se poi l’otturazione salterà ancora, la prossima volta mi farò curare il dente da un altro. Se invece non salta, non ci sarà più bisogno di tornare. Meglio quindi che mi guardi bene le sue due aiutanti, perché sarà in ogni caso l’ultima volta che le vedo.

Arrivo come sempre e trovo le due pulzelle, Hime e l’altra, alla reception. Hime ha il camice bianco pieno di macchie sopra la camicetta a righe orizzontali rosa e bianche, la collega è vestita allo stesso modo ma le righe sono azzurre. Entrambe si muovono come papere in quelle ciabatte, minuscole ma pur sempre troppo grandi per i loro piedini.
Mi accomodo nella poltrona su invito di Hime, che questa volta sembra avere la vocina più scema del solito. Ha come sempre la mascherina, ma so che non la usano per igiene. Secondo un mio collega serve solo a nascondere la parte più brutta della faccia. Se sapessero che non mi importa nulla della bellezza esteriore, né di quella interiore, e che le stringerei entrambe in un caldo abbraccio tra le spire possenti del mio uccello multifunzione.

L’abbraccio

Finiti i soliti preparativi, il dottore si mette all’opera e sembra voler ripetere esattamente il lavoro della volta precedente. Certo che se non scava un pochino per farmi un incastro, poi è facile che l’otturazione esca.  Frattanto Hime mi toglie le dita nude dalla bocca trascinando un lungo filo di bava, che spezza con l’altra mano con il gesto delicato di una musa che suona la lira, e le tante minuscole goccioline formatesi in aria creano con il controluce della lampada un gioco di luci simile ai fuochi d’artificio. E mentre mi godo questo spettacolo perdo l’attimo giusto per redarguire il dottore, che per inciso ha dei guanti di gomma, ed è la prima volta che li usa da quando vengo qui.
I due ostentano una fretta insolita di concludere il lavoro. Anche loro devono essere stufi di quel rompiscatole di SirDiC, che viene così spesso ma non gli possono chiedere soldi. Insistono per lungo tempo con la lampada viola per indurire il composito, e le due infermiere si alternano aiutando il dentista in questo compito. Ho tutto il tempo quindi di guardare da vicino i loro occhietti a mandorla e quel poco che la visuale limitata mi offre dei loro corpicini giovani e freschi. Le dita nude di Hime sono insapori, ma al confronto con i guanti di gomma del dentista sembra di leccare un gelato alla fragola. Alla musica dell’aspiratore mi sento ringiovanire e la vocina di Hime mi arriva fino al cuore.
Maledetto dottore, hai vinto ancora. Ora ho capito che non sei un dentista, ma uno stregone. E le due pulzelle, come le sirene omeriche, sono i tuoi strumenti per attirare i clienti porci. E sai bene che io continuerò a tornare, e non ho nulla in contrario. Vengo tutte le volte che vuoi, vengo anche solo a comprare il dentifricio, ma almeno l’otturazione fammela bene, caspita.

Hime

38 – Il dentista

Lo studio del mio dentista sembra un porcile. Però costa poco e non trovo mai la fila e quindi, da quando quel vecchio tirchio del mio datore di lavoro mi ci accompagnò per la prima volta, continuo ad andarci ormai da anni. Il dente è sempre lo stesso; quella minuscola carie che era all’inizio, a furia di perdere e rifare le otturazioni si è trasformata in una gigantesca cavità. Comunque, igiene e bravura del dentista a parte, non ho niente di che lamentarmi.
Mi riceve sempre una simpatica pollastrella che parla in un modo un po’ strano. Inizialmente pensavo che il suo modo di parlare, lento e con una voce innaturale come se si stesse rivolgendo a un bambino piccolo, fosse in realtà una cortesia nei confronti di me straniero per farsi capire meglio. Invece ho notato che parla così anche ai clienti giapponesi, e anche le altre aiutanti del dentista parlano allo stesso modo.
La tipa, che si fa chiamare HIME anche se non è questo il suo vero nome, mi fa accomodare nella poltrona e mi mette una coperta sulle gambe per il freddo. Mentre sistema la lampada, una tetta passa pericolosamente a portata di morso.
Il vassoio degli strumenti sembra non essere stato riordinato dalla visita precedente. Si notano schizzi di sangue e medicine dappertutto, e le parti di plastica delle attrezzature sono rigate da colate secche di liquidi gialli, verdi e marrone. Frugando nelle pieghe della poltrona si trovano facilmente pezzi di denti, carne mummificata e altri reperti interessanti.
Dopo avermi chiesto quale sia il problema, la tipa si allontana per riferirlo al dottore, che ancora non si è fatto vedere. Mi giro e vedo alle mie spalle una specie di retrobottega con cucina annessa piena di vasellame sporco. Sopra un tavolo sono buttati alla rinfusa vestiti, coperte e un barattolo di caffè solubile.
Dopo alcuni minuti arriva finalmente Lui, la Star, il Dottore.
Il dottore mi visita sommariamente e decide che devo fare la radiografia. Allora Hime mi conduce dentro l’apposita stanzetta e fa i dovuti preparativi, ma poi, anziché allontanarsi come fanno di solito, rimane con me dentro la stanza durante la radiografia. Forse è per quello che parlano tutte come sceme, sarà la sovraesposizione ai raggi X.
Poi si torna in postazione. Hime mi mette al collo un bavaglino: non di quelli di carta usa e getta, ma di stoffa bianca, pieno di macchie di sangue che i lavaggi non sono riusciti a eliminare, e mentre il dentista è all’opera la pulzella mi tiene la bocca aperta con le dita nude. Mi piace illudermi che lo stia facendo solo per me, comunque fra una trapanata e l’altra ne approfitto per darle una leccatina alle dita, con la scusa che non so dove mettere la lingua.
Nello studio ci sono più poltrone, e le poche volte che ci sono altri pazienti il dentista li segue contemporaneamente, andando un po’ di qua e un po’ di là, mentre Hime e le altre intrattengono i pazienti che in quel momento non sono assistiti. Ogni tanto sento il rumore di un raschiamento di gola, e quando mi giro incuriosito faccio giusto in tempo a vedere il tizio di turno rigurgitare nella sputacchiera un liquido vischioso venato di sangue.
Poi finalmente si termina. Il costo dell’otturazione è di pochi spiccioli. E se l’otturazione salterà subito poco importa, la prossima volta sarà gratis.
Dopo che Hime mi ha salutato con la sua solita vocina scema mi avvio verso l’uscita, rimettendomi le scarpe e lasciando le ciabatte nel cesto delle ciabatte usate. Le ciabatte usate vengono infatti scrupolosamente separate da quelle sterilizzate, ed è una cosa che ho visto fare solo qui. Se c’è una cosa che detesto è proprio mettermi le ciabatte che hanno usato tutti. Meno male che, almeno qui, all’igiene ci tengono.

Il dentista

36 – Kamata, 7:30 A. M.

Ci sono le donne belle e le donne brutte. Quelle brutte si dividono in bruttone che ma sì, e bruttone che neanche morto. A quest’ultima categoria appartiene solo lei. Sale a Kamata, mi riconosce, sa che scendo fra due stazioni e mi si piazza davanti in attesa di sedersi.
La pachiderma di Kamata. Un mostro orribile, non le è bastato il brutto scherzo che la natura le ha fatto: lei ha qualcosa in più, qualcosa di suo, che fa scoccare quella scintilla che la rende incredibilmente ripugnante. Passa il tempo che la separa dalla conquista del suo agognato posto a dialogare con il suo telefonino, e la sua grassa figura mi copre la visuale da altre eventuali pulzelle.
Almeno il pachiderma di Kamata, nello sfogliare il giornale, a volte mi rivolge la pagina delle donne nude. Ma questa no, la sua vista è una tortura e basta, prende il mio posto e non mi dà nulla in cambio.
Non riesco più a sopportare tutto questo. Ecco perché da qualche tempo, alla stazione di Kamata, poiché fortunatamente il treno si vuota momentaneamente, ne approfitto per andare a sedermi dall’altra parte del vagone.
Ed ecco che arriva lei. Con quella figura elegante, il fondoschiena perfetto circondato da un’aura di feromoni, mi fa dimenticare le sofferenze patite dall’altra parte della carrozza. Se la fisiognomica non è un’opinione, deve essere una gran maiala. Sa che devo scendere fra due stazioni e mi si piazza giustamente davanti. Rimango pietrificato davanti a tanto splendore. Altro che Donna Diapason, questa è veramente notevole. Mi serve una scusa per alzare lo sguardo senza farmi scoprire, allora guardo i cartelli pubblicitari a sinistra, poi quelli a destra e nel passare dagli uni agli altri getto un’occhiata fugace.
Scansione della mano sinistra, anelli: negativo. Ah, ce l’ho io, cavolo. Allora come non detto. In fondo deve essere come me la immagino, se nessuno se l’è ancora presa.
Talvolta si libera il posto vicino a me e lei ci si siede. Mi godo immobile quella frazione di secondo in cui nell’atto di sedersi si struscia involontariamente sul mio fianco. Poi alla stazione successiva mi alzo io, mi struscio, mi guardo dietro fingendo di stare controllando di non avere dimenticato nulla, e rivolgo un ultimo sguardo discreto alla porca, ormai semiaddormentata. Basta, devo tornare a pensare alle cose serie. Scendo dal treno e mi allontano verso l’uscita della stazione, disperdendo la folla con l’uccello multifunzione, e mi dissolvo silenziosamente, come ogni mattina, nel mondo dei salarymen.

Il pachiderma di Kamata e la pachiderma di Kamata

12 – Piscia, SirDiC ti ascolta. (revival post*)

Il superbo cesso tecnologico giapponese. Ha ispirato i vati di tutto il mondo, è stato descritto nei diari di tutti i viaggiatori che hanno attraversato il mar del Giappone, ha tenuto lontano i meno esperti, intimoriti dalla sua maestosità. La sua grande bocca riceve avida i nostri rifiuti, e all’azionamento dello sciacquone, grazie ai risultati di lunghe ricerche di Ingegneria idraulica, non c’è stronzo che possa lasciare la minima traccia del suo passaggio. Avvolto in un sudario di carta igienica, egli si dimena in un drammatico vortice, riemergendo più volte come per cercare affannosamente le ultime disperate boccate d’aria, prima di inabissarsi per sempre nelle fogne lasciando il WC perfettamente lindo. Pulizia e spettacolo, questa è la vera meraviglia tecnologica.
Il viaggiatore distratto, invece, tenderà a ricordare solamente i controlli elettronici, che ripetiamo per semplicità nonostante la letteratura sia ricca di informazioni. Il modello base consiste di tavoletta riscaldante con temperatura regolabile, doccia anti-tarzanello anch’essa regolabile non solo in temperatura ma pure in potenza (potenza 1= leggero solletico, potenza 5= feroce sodomia); le donne possono scegliere di indirizzare l’ugello un po’ più avanti per centrare le loro parti intime, e in più nei bagni delle donne (e in quelli misti, per quello lo so) si trova una funzione aggiuntiva: un rumore di sottofondo piuttosto alto, ovviamente di volume regolabile, che ricorda le onde del mare, e che dovrebbe camuffare altri rumori che poco si addicono alla grazia femminile.
Pochi invece sanno che, come in un accordo di pianoforte una nota stonata risalta sempre, il rumore delle onde non è l’ideale per nascondere il rumore di una pisciata (o peggio). Ecco così che quando SirDiC, nei bagni della ditta, sente le onde del mare (i bagni delle donne sono accanto a quelli degli uomini), è segno inequivocabile che una delle 4 donzelle che lavorano nella mia ditta sta per emettere terribili e scandalosi rumori. A questo punto non occorre neppure tendere l’orecchio più di tanto per captare ciò che le pulzelle volevano tanto nascondere.

Spesso all’uscita del bagno ci si incontra. “Ah, eri tu?” mi dice sorridendo la vacca, forse riferendosi ai miei rumori, senza sapere che siamo pari. E pensare che se non azionassero il rumore di fondo non mi accorgerei di nulla. Chissà che cosa ne pensano alla TOTO (la ditta monopolista assoluta dei cessi). Magari lo fanno apposta per prendersi gioco delle donzelle ignare, oppure credono davvero nell’efficacia del loro prodotto. In ogni caso, il concerto è assicurato. I vecchi perversi ringraziano.

*prima pubblicazione il 14 novembre 2007

Piscia, SirDiC ti ascolta

31 – Lunedì

Sto facendo la cacca nei bagni di un traghetto di linea. Geloso della mia privacy, mi assicuro che la porta del bagno sia ben chiusa. A metà dell’azione, i pannelli prefabbricati di cui i muri sono costruiti cadono giù uno per volta, rivelandomi alla vista della gente che affolla il corridoio della nave. Solo la porta, stranamente, è rimasta in piedi.

*

*

*

Devo correre, devo correre, devo correre, devo correre, devo correre. Sono stanco ma devo correre. Non so perché, ma devo correre.

*

*

*

Ho commesso un atroce delitto. Non chiedetemi quale, non lo ricordo neppure io. Fatto sta che dopo un processo sommario mi sono ritrovato in gattabuia. Ad accogliermi un signore corpulento di mezza età con i baffi. Ha sempre vissuto in isolamento da quando lo hanno arrestato ultraminorenne, e adesso che si ritrova un compagno di cella non vede l’ora di provare per la prima volta i piaceri della carne. Io capisco le sue intenzioni e me la do a gambe, ma nella piccola cella la fuga dura poco e presto mi ritrovo immobilizzato sul letto da due pesanti mani. Mi dimeno cercando di liberarmi, ma è tutto inutile, e dopo pochi istanti sento l’inevitabile laceramento delle carni e ho come l’impressione di vedere dall’interno del mio corpo quel ruvido membro che fa capolino, prima di svegliarmi per il dolore e il terrore.

Non si può dire che sia stato un sonno particolarmente ristoratore, con tutti questi sogni del cavolo. Ma per essere un lunedì mattina non è neppure andata troppo male. Mancano ancora 30 minuti al suono della sveglia: un po’ presto per alzarsi, ma forse troppo tardi per riuscire a riaddormentarsi. Mi rigiro nel letto e aspetto pazientemente la sveglia; quando questa suona, mi alzo senza perdere tempo. Mi lavo, faccio tutto quello che devo fare, poi negli ultimi minuti accendo la TV. Strano, oggi alla NHK la programmazione è diversa dal solito. Ah ecco perché: secondo i miei calcoli dovevano essere le 6:30, invece sono le 6:47. Porco cazzo.

Uscito di casa il panorama è diverso dal solito. Non incontro l’uomo con la mascherina che passa alle 6:38. Le comari che ogni giorno chiacchierano all’ultimo incrocio prima della stazione non ci sono più. Oggi col cavolo che riesco a sedermi nel treno. La tecnica mnemonica in questi casi non è applicabile, per l’inserimento a 45 gradi sono troppo fuori allenamento.

Arrivato in ditta, l’unica cosa che ho voglia di fare è il disegnino qua sotto. Non saprò mai dove ho perso i 17 minuti che mancavano all’appello stamattina. Ma è lunedì e tutto è possibile, proprio come nei sogni. Anche se, sogno per sogno, avrei preferito entrare in un carcere femminile. Sarà per il prossimo lunedì.

Lunedì